Ogni zona ha la sua varietà prescelta che deve essere da quel loco prediletta e quindi valorizzata per esaltare la vera tipicità. Alcuni esempi possono essere oltre ai già citati Leccino, Frantoio, Moraiolo e Pendolino; il Maremmano, tipico della Maremma, il Quercetano, tipico della Versilia, il Maurino, tipico dell’Appennino, l’Olivastra, tipica delle zone argillose e tufose. Oltre alla varietà, in ogni loco variano alcuni dettagli sulla tipologia d’allevamento. Mentre queste varietà, ora citate, essendo molto rustiche, con portamento massiccio e longilineo (quest’ultima molto meno per il Maurino, in quanto sta nell’Appennino dell’entroterra), si prestano molto bene alla forma d’allevamento libera, la quale si limita a continue puliture dei pedoni dai polloni ed eventuali succhioni e da periodiche potature, non drastiche, ma di richiamo. Data la sua particolarità il Maurino deve avere le potature periodiche per il mantenimento della forma a globo. Le altre, qui ed altrove più volte citate, si prestano molto bene per la potatura a vaso. Questa consiste nell’eliminare costantemente tutti i polloni ed i succhioni interni. I polloni stanno nel pedone, o meglio nel colletto della pianta; mentre i succhioni stanno ovunque. Questi non sono altro che dei rami vegetativi che non portano frutto se non dopo molti anni (almeno cinque) e che la pianta produce in reazione al trauma della potatura e per suo proprio accrescimento. Si riconoscono molto bene perché sono completamente diritti verso l’alto. I rami principali, detti “branchie”, variano da tre a cinque e devono dare proprio la forma stilizzata di un vaso con la base più piccola verso terra; mentre le fronde devono dare la forma di un tronco di cono, con la base più piccola verso il cielo. Le fronde sono tutti quei rami penduli, che portano frutto, se hanno almeno un anno d’età. Al terzo cessano di fruttificare. Per questo e perché divenuti troppo interni devono essere asportati. Quindi tutti gli anni sono necessari piccoli interventi di mantenimento e rinnovo. Sebbene ogni tre anni siano necessarie potature di richiamo, sia per contenere la larghezza all’interno del sesto d’impianto, sia per contenerne l’altezza fra i quattro ed i cinque metri. Pertanto possiamo dire che la potatura a vaso garantisce un’ottima aereazione della fronda ed una buona penetrazione dei raggi solari. Due particolari importanti per tenere naturalmente a bada i fitofagi amanti dell’ombra umida. Inoltre come possiamo intuire da questa breve esposizione le dimensioni dell’allevamento sono molto influenzate dal contesto in cui ci troviamo. Difatti, con più si va in alto, massimo 800m.s.l.m., più gli olivi sono piccoli e cespugliosi; mentre con più ci si avvicina al mare, più questi sono alti e boscosi. Grazie all’omogeneizzazione, alla razionalizzazione ed all’ottimizzazione dei sistemi d’impianto stanno entrando nel contesto nostrale anche varietà estere più fronzute, meno legnose e più precoci delle nostre, quindi perfette per un sistema d’impianto superintensivo. Tale sistema d’impianto non ha nulla di diverso rispetto ad un vigneto. Difatti si taglia l’erba e lavora la terra con scavalcatrici, frese ed erpici a molla, si pota con delle cimatrici, si utilizza l’impianto a goccia per l’irrigazione mirata e controllata, si fanno trattamenti con atomizzatori per insetti e muffe, si adoperano vendemmiatrici per la raccolta e pulizia delle olive, eventualmente si passa a mano ove taglio dell’erba, potatura e raccolta risulta poco accurata, ma è molto raro. Unica pecca è che per tale tipo d’impianto occorrono per ora estensioni molto piane e possibilmente non inferiori all’ettaro e soprattutto solo varietà spagnole tipo: Arbequina, Piqual, Arbosana e Koroneiki.
Innanzi tutto bisogna chiarire l’utilizzo di alcuni termini.
Ossia: macinatura, questo si riferisce esclusivamente ai cereali; molitura, il quale si riferisce specificatamente al metodo cosiddetto tradizionale (meccanica di legno, ferro e pietra) per la lavorazione dell’olive; frangitura, rivolto alle varie metodologie moderne (meccanica d’acciaio inossidabile) per la distruzione dell’olive. Dico rispettivamente lavorazione e distruzione perché nell’atto della molitura non vi era solo il fatto che le olive venivano ridotte in poltiglia molto fine, ma anche una robusta mescolanza di tale pasta, mentre nella frangitura c’è solo ed esclusivamente l’atto di frangere, ossia ridurre le olive in poltiglia.
Inoltre è indispensabile avere ben impresso in testa che l’olio extravergine d’oliva è un prodotto ottenuto solo ed esclusivamente dalle olive mediante procedimenti meccanici e deve rispettare determinati parametri sia fisici, che chimici ed organolettici all’unisono.
Proprio a partire da questi concetti base, si può provare ad iniziare ad esporre l’evoluzione dell’estrazione dell’olio dalle olive.
Come possiamo vedere la parola molitura richiama le molazze. Grandi ruote ruvide in granito, che possono arrivare anche a pesare 10t. .
Queste, ruotando dentro una vasca con piano ruvido anch’esso in granito e contornato da in bordo in legno o ferro, riducono in poltiglia le olive intere, ossia con il nocciolo.
Il complesso veniva appunto chiamato molino.
Esso veniva caricato a mano da un addetto, il quale ci svuotava direttamente le balle, ove le olive erano conservate e che un apposito addetto aveva precedentemente recepito. Le balle erano sacchi di juta, poi di plastica, in cui le olive venivano trasportare e conservate in frantoio. Dato che avevano un volume grande, esse vi fermentavano facilmente, dando sin da subito odore di muffa, riscaldo, acqua di vegetazione ed avvinato.
Il processo di molitura era molto lento, tanto che s’iniziavano ad avere significativi valori d’ossidazione, quindi d’irrancidimento. Solo questo metodo di frangitura oggi viene effettuato per quelle varietà di olive che danno per certo olio eccessivamente amaro e/o astringente e/o piccante. Proprio perché l’irrancidimento rende l’olio più morbido, ossia dolce.
Una volta che le olive erano diventate pasta fine ed i pezzetti di nocciolo si erano stondati, un altro addetto, la prendeva e riempiva gli stoini, che, un’altra persona, metteva nella pila. La pila era un carrello in ferro, con il piano leggermente concavo e rigato, con un bordo non troppo alto ed un beccuccio per indirizzare meglio l’uscita del mosto d’oliva. Al centro del carrello c’era un grosso tubo forato che serviva sia per impilare che per far uscire il liquido centrale.
Sistemata la pila con gli stoini, veniva posta sotto la pressa. La pressa è una grande struttura ad arco in ferro colato, all’interno della quale, una volta incastrato il suddetto carrello, un grande pistone, da sotto, schiacciava molto lentamente, altrimenti schizzava via tutto, il carrello nell’arco, fino ad una pressione anche di 800bar. .
Proprio come la molitura, questa operazione era molto lenta e spesso necessitava di almeno un ripasso affinché fosse tolto tutto il liquido così estraibile. Difatti è da qui che viene la terminologia “prima spremitura”ed è sempre in questa fare che prendeva anche gusto di morchia!
Ad assistere tale operazione vi era una persona fissa.
Il liquido che usciva non era solo olio, come si potrebbe pensare per il vino.
Esso era rappresentato si da olio, ma anche da acqua di vegetazione e residui, troppo fini per il filtro stoino, di polpa.
Tale liquido era raccolto in una prima vasca di decantazione che serviva soprattutto per togliere i residui solidi. Poi un addetto lo faceva passare in un’altra vasca dove si faceva nuovamente decantare per cercare di togliere più acqua di vegetazione possibile. Dopo di che lo faceva passare in un’ultima vasca di raccolta. Qui poteva essere aggiunta acqua bollente, cosicché, l’olio, reso più fluido dal calore dell’acqua ed affiorando da acqua pulita ne usciva più pulito. Più pulito sì, ma con più qualità no! Perché anche questa era un operazione naturale, quindi molto lenta, in cui venivano accentuati i difetti anzidetti. Ecco spiegato il motivo per cui una volta l’olio d’oliva era detto olio da lume, meglio lampante!
In alcuni frantoi, a questo punto c’era la scelta fra consegnare l’olio tal quale o passarlo in un piccolo separatore. Ad esso serviva una persona fissa, dal momento che si intasava facilmente.
Inoltre nel frantoio servivano ancora un paio di persone: una che aiutasse chi era in difficoltà ed un’altra che visionasse il lavoro generale e che, soprattutto, consegnasse l’olio al legittimo proprietario.
Ora passiamo ad analizzare il molino moderno, che come dobbiamo sapere da ciò che si è detto all’inizio, prende il nome di frantoio.
A voler far le cose precise c’è da cambiare testo tutti i giorni, perché tutti i giorni ci sono delle realtà o dei prototipi nuovi.
Comunque sia per tali approfondimenti ci sono siti appositi.
Qui noi descriveremo quello che, nel nostro immaginario, risulta essere il più completo e comune possibile.
Innanzitutto, iniziamo con il ricevere le olive.
Poi le immagazziniamo e seguiamo il programma di lavorazione.
Questo consiste nel passare le olive prima nel deramificatore e poi nel defogliatore.
Da qui cadono nella lavatrice da cui vengono spinte in un nastro per il risciacquo e lo sgocciolamento, prima di cadere nella coclea che le porta al frangitore.
Qui di frangitori ne esistono a più non posso: a martelli in doppia o singola griglia; a denti; a dischi; a coni lisci o dentati; a rulli lisci o dentati; ecc… . L’importante è che ce ne sia uno!
La cui tipologia va a completa discrezione del frantoiano.
Non è più molto di moda, perché vi erano delle perdite sia in quantità che in qualità, ma voglio ricordare che prima di andare al frangitore alcuni denocciolavano. Il nocciolo, una volta essiccato, veniva usato come combustibile.
Da questo, la creata pasta d’olive, va nelle gramole.
Anche qui esse oggi vanno molto per le lunghe. Difatti ci sono: quelle singole o accoppiate; quelle indipendenti od a scalare; quelle sotto azoto o no, oppure sotto vuoto; quelle a castello od a tappeto; quelle a temperatura controllata o libera; ecc… . L’importante è che ce ne sia uno che non alteri la qualità della pasta!
La cui tipologia va a completa discrezione del frantoiano.
L’importante è che venga fatta con calma e con cura, perché è qui che si libera l’olio dalle cellule ed è sempre qui che il futuro olio può prendere, da parte del frantoiano, possibili difetti.
Un minimo di contatto con l’aria è indispensabile perché si attivano quegli enzimi che rompendo le membrane cellulari, dette vacuoli, liberando l’olio. Inoltre è utile anche una certa temperatura non troppo calda per rendere più fluido l’olio e facilitarne la successiva estrazione. Il tutto senza esagerare, perché in questo ambiente ci sono tutti i contesti per dare all’olio tanti difetti, quali: il riscaldo; la morchia; l’acqua di vegetazione; il rancido; il metallico; ecc… .
Difatti per evitare questo, oggi esistono ancora in maniera del tutto sperimentale, delle apparecchiature simili a dei pastorizzatori oppure a dei radiatori, in cui si sfruttano addirittura gli ultrasuoni! I quali, oltre ad abbattere gli eventuali errori, riducono di almeno dieci volte i tempi di “gramolazione”. In quanto si parla di una gramolazione comune di circa 40min. a questa sperimentale di 3min. .
Una volta gramolato si passa alla separazione centrifuga in decanter. Alcuni lo chiamano anche separatore orizzontale od ancora centrifuga orizzontale.
La cui tipologia va a completa discrezione del frantoiano.
Comunque sia è proporzionale alla capacità lavorativa del frantoio nel suo complesso.
Ancora di questi non ne esistono molti tipi, sebbene ci stiano lavorando. Difatti prima se ne trovavano di due tipi: a due od a tre fasi entrambi con aggiunta di acqua a discrezione del frantoiano. Ciò dipendeva dal fatto se usciva rispettivamente olio sporco e sansa umida oppure, acqua di vegetazione, olio e sansa riconoscibili. Oggi sperimentano sulla forza centrifuga per azzerare l’immissione di acqua, e su strutture che controllino migliormente la temperatura. Inoltre creano strutture che tolgano il contatto con l’aria.
A questo punto la sansa o viene stoccata per essere ritirata dal sansificio, il quale mediante procedimenti chimici estrae l’olio di sansa oppure se non è stato fatto prima si estrae il nocciolino che una volta essiccato viene utilizzato come combustibile ed il paté rimanente come concime o alimento zootecnico o come materiale da biomasse. Invece l’olio e se c’è anche l’acqua subiscono un ulteriore separazione sempre per forza centrifuga.
In particolar modo, dall’acqua di vegetazione si recupera quel pochino di olio, che, assieme all’altro, viene ripulito dalle altre impurità, in modo tale che l’olio che ne esce possa essere pronto per il consumo.
Questa tipologia di centrifugazione verticale o separazione verticale, che dir si voglia, va a completa discrezione del frantoiano.
Dico così anche in questo caso, perché ne esistono vari tipi. Questi sostanzialmente differiscono da quelli comuni dal fatto che sono chiusi sotto gas inerte e ad un più rigido controllo termico.
A completa discrezione congiunta fra il cliente ed il frantoiano, l’olio può subire subito una bella filtrazione.
Essa garantisce una maggiore limpidezza e stabilità dell’olio dato che riesce a togliere qualunque estraneità. L’unico inconveniente sono le quantità! Con più la quantità è industriosa e più conviene. In caso contrario è opportuno fare una serie di travasi. Di cui il primo dopo circa quaranta giorni e gli altri a discrezione dello sporco, detto fondo o morchia presente.
L’olio così ottenuto viene stoccato in cisterne grandi o piccole, purché d’acciaio inox a chiusura ermetica, magari sotto gas inerte, a temperatura costante compresa fra i 10 ed i 20°C, in modo tale da garantirgli l’assenza di freddo, aria, caldo e luce, che velocizzano il naturale invecchiamento.
In queste condizioni attende le dovute analisi per essere immesso nel commercio.
Non vuole essere questa la sede che da tutte le informazioni, bensì quella che vuole togliere alcune curiosità.
Innanzi tutto è fondamentale sapere che per determinare la qualità di un olio è indispensabile tanto un’analisi chimica quanto quella organolettica. Difatti l’una ratifica l’altra!!!
Inoltre è utile sapere che queste valgono al momento, perché essendo l’olio materia viva, essa è mutevole nel tempo, normalmente in peggio.
Ufficialmente e soprattutto genericamente di olii ne esistono tre categorie:
L’utilizzo dell’olio extravergine d’oliva in cucina ed in tavola, ossia sia da cotto che da crudo, è un’esclusiva di alcune famiglie del mondo Mediterraneo. Difatti se andiamo a Nord si tende ad usare il burro, se andiamo ad Est si tende ad usare il strutto, se si va a Sud si tende al usare l’olio di palma, se si va ad Ovest si tende ad usare la margarina. Per fortuna la cultura dell’olio extravergine si va estendendo ed a crudo sta diventando d’uso sempre più comune. Bene sarebbe lo diventasse anche per l’uso da cotto, in bontà del fatto che ha un punto di fumo, ossia quella temperatura in cui le molecole passano da salutati a nocive, molto alto, cioè fino a circa 220°C. Purtroppo nessun olio di semi riesce ad avere tale stabilita neppure fino a 180°C, sebbene da crudi anch’essi abbiano delle proprietà eccezionali. Solo alcuni grassi animali, come il burro e lo strutto appunto, possono eguagliarlo se non addirittura superarlo. Tutto sta nella loro purezza. Allora fiduciosi ripariamo in prodotti studiati apposta, ma che, seppur a livello chimico possono andar benissimo, a livello organolettico, o meglio di sapidità, rischiano di non avere niente di buono.
L’origine dell’olivo è molto incerta. Però molti concordano che provenga dall’Asia Minore. Ciò è ratificato dal fatto che se ne trova testimonianza nei geroglifici Egiziani, nei reperti Babilonesi e nella Bibbia, con particolare riferimento temporale all’Antico Testamento che è antecedente a Gesù il nazzareno, figlio di Giuseppe il carpentiere e di Maria sua giovane sposa vergine, detto in seguito il Cristo. Questo per farvi capire quanto lontana sia la sua conoscenza. Difatti si pensa che inizialmente l’olio fosse di una qualità sola, ossia lampante. Lampante deriva da lampada, quindi per far luce. Poi la sua prima grande diffusione si ebbe con i Fenici e soprattutto con i Greci, i quali fondando le coloniche città-stato su quasi tutte le coste del Mediterraneo dovevano fornire mezzi di basilare sussistenza e gli olivi rientravano fra questi. L’olio veniva impiegato anche nelle pitture e probabilmente veniva anche utilizzato come cosmetico. La seconda grande diffusione dell’olivo si ebbe con i Romani, i quali lo imponevano come una delle tre colture basilari per il commercio di scambio e per mezzo di pagamento soprattutto delle tasse, gli altri due erano il grano e la vite, quindi il vino e la farina. Si potrebbe dire che queste erano una Triade Vitaleae. Se posso osare oltre, olio, vino, e farina, erano rispettivamente e similmente considerati al pari di: ferro; rame e bronzo. Mentre le loro piante: argento; stagno ed oro. Essi lo utilizzavano certamente per condire. Sebbene con il Medioevo venne introdotto come medicinale, è con il Rinascimento, soprattutto in Italia, che venne fortemente potenziata la coltivazione dell’olivo e la produzione di olio, per poi ricadere in una situazione di sempre maggiore disinteresse, tanto che venne classificata come coltura marginale. Questo blando escorso storico per farvi capire la vastità dell’aria di coltivazione e cultura dell’olivo e quindi dell’olio. Dalle grandi estensioni delle Colonne d’Ercole alla Mesopotamia, dalle nicchie della Valle del Reno a quelle della Valle del Nilo, insomma; tutto il Mediterraneo! Ciò, unito al fatto del tempo trascorso, ha contribuito a creare una complicata varietà di tipologie: di coltivazione, di raccolta, di uso, di razze, di gusto, di conservazione. Insomma, in due parole: tradizioni locali, che oggi vogliamo valorizzare con svariati certificati di tipicità. Però, come potete notare dal suddetto, con più ci si allarga e più nascono dei cavilli. Due fra tutti: quantità e qualità. Come fare ad accontentare tutti? Un unico prodotto globalizzato! Alla faccia della specialità tipica garantita che caratterizza quella del loco. Difatti sono nati oliveti anche al di fuori del Mediterraneo, i quali basano la loro qualità solo su varietà spietatamente convenienti, ignorando il fatto che la bontà dell’olio aumenta all’aumentare delle varietà.
AGRICOLTURA o AGRICULTURA? Questo è il dilemma?
Però, se ci si fantastica bene, ossia in maniera dettagliatamente pignola, il significato del termine AGRICOLO, oggi, non si riferisce più a ciò che riguarda la sola cura della terra propriamente detta, ma è entrato a far parte di un intricato meccanismo, che l’ha porto a far parte di quasi tutti i settori della CONOSCENZA.
Difatti, con il termine AGRICOLTURA ci si riferiva solamente a tutte quelle piante, dette colture, le quali, con cure particolare, servivano al benessere umano, prima di tutto e poi anche a quello animale.
Pertanto, una qualsiasi persona che impegnasse la sua esistenza in ciò, si ritrovava ad avere una involontaria, più o meno ricca e fiduciosa conoscenza su come allevare, sfruttare e mantenere al meglio ed a proprio vantaggio più varietà di piante.
Con il passare del tempo l’uomo s’ingegnò ed iniziò a “coltivare” anche alcune razze animali per farsi aiutare nell’esercizio dell’“allevamento” vegetale.
Così all’interno della parola AGRICOLTURA entrò anche il termine di allevatore.
Questo portò ad un lento, faticoso ed inesorabile miglioramento della vita e del sapere, in quanto, chi esercitava tale lavoro con curiosità e con calma, rimaneva sorpreso da quello che faceva soltanto perché gli era stato tramandato a suon di calci e schiaffi.
Ciò lo portò a chiedersi: “Per fare questo devo far così e così fo! Ma come è possibile che io debba per forza far così. Perché devo far così?”.
Fu così che quello che prima era solo un’orale affascinante storiella mistica, divenne una scritta sicura scienza reale.
Pertanto, dati alla mano, iniziò il cosiddetto miglioramento, varietale per le piante, razziale per gli animali, volti a potenziare le prestazioni, qualitative e quantitative assieme, dell’individuo per le sempre maggiori esigenze umane.
Così, alcuni agricoltori si dedicarono agli studi letterari, per non perdere il bello della Natura, e scientifici, per piegare la Natura all’utilità. Oserei dire agriletterati ed agriscienziati.
Con il passare del tempo ci fu un sempre maggiore peso economico, tanto che alcuni agricoltori letterati divennero politici, ossia diplomatici, burocrati, legislatori, giuristi, poeti, pittori, scultori, musicisti, esattori, ecc… ; mentre alcuni agricoltori scienziati divennero botanici, zoologi, biologi, statisti, microbiologi, chimici, fisici, geologi, medici (sia per umani che per animali, difatti molti nomi di muscoli, ossa, organi, ormoni, enzimi, proteine, vitamine, grassi, sono identici), ecc… e con più le loro rispettive conoscenze si sviluppano più si scindono in altre specificità. Persino la finanza risente del fare agricolo.
Tutto questo a portato la società ad essere fortemente speculativa e per questo specializzata in qualcosa di specifico.
Tanto che non esiste più un tipo d’agricoltore, ma una miriade.
Miriade che non rimane più sulla terra ferma, ma che va dall’alto dei cieli, avicoltura, alle profondità del mare, ittiocoltura o meglio acquacoltura (perché ciò non riguarda solo i pesci, ma anche le alghe), passando per le microcolture, ossia coltivazioni di muffe, batteri, lieviti, ecc… e la silvicoltura (flora e fauna di bosco).
Tutte queste …colture non operano solo per l’alimentazione umana, ma anche per la salvaguardia delle razze, varietà e tipologie selvatiche.
Per operare quasi tranquillo, ognuno di questi …coltore, deve per forza sapere, la storia, la fisiologia, la meccanica, le leggi, di quello che intende fare specificatamente, per così meglio guadagnarci e non più genericamente sostentarcisi saggiamente.
Questo a portato l’uomo ad ignorare l’intricante stagionalità della vita ed a fare di tutto ciò che lo circonda, ma anche di se stesso, cieca imprenditoria. Ossia a non modellarsi più nel rispetto del vitale ambiente, ma del documentato denaro. A forza di perseguire il meglio, siamo diventati talmente troppo specifici che abbiamo perso il concetto armonico d’insieme!
Pertanto, oggi non si può più modellare il paesaggio per rendere più sicuro il vivere umano, anzi, difficile risulta anche il mantenere quello che, a suo tempo, è già stato fatto.
Ciò stimola l’abbandono di quelle zone che hanno dato quella tipicità caratteristica ad un determinato luogo.
Difatti, solo nei terreni già agricoli, è possibile fare AGRICULTURA.
Per fare una coltura arborea, nel nostro caso l’olivo, dato che è un investimento pluriennale (in generale mai meno d’una dozzina d’anni, ma per l’olivo mai inferiore al secolo, anzi in alcuni luoghi ci sono olivi millenari), bisogna avere una buona cultura di tale varietà.
Innanzi tutto bisogna capire il clima in cui si va ad esercitare. Per cui un’analisi meteorologica.
Poi bisogna capire la tessitura del suolo ed il suo stato idrologico, quindi occorre un’analisi idrogeologica.
Successivamente bisogna capire lo stato fisiologico del terreno. Per cui un’analisi chimica-fisica-microbiologica.
Dopo di che bisogna capire la sua topografia, ecco dunque che occorre un’analisi planimetrica o più appropriatamente agrimensura.
Successivamente mettere insieme queste quattro informazioni per decidere la o le varietà più idonee. Per cui un’analisi botanica-fisiologica-varietale.
Poi si prepara il terreno per la messa a dimora. Si effettuano lavorazioni prima profonde, dopo si concima e successivamente si effettuano lavorazioni superficiali per interrare il concime ed affinare la terra. Eventualmente, se il terreno è troppo inclinato e non è soggetto a vincoli ambientali, si può effettuare il terrazzamento. Ossia creare delle gradinate di terra retta da muri di sola pietra la cui altezza e larghezza deve essere proporzionale all’angolo di pendenza.
Fatto questo bisogna capire l’eventuale pericolo silvicolo dell’area, attraverso un’analisi indiretta intervistando i confinanti e poco oltre. Eventualmente provvedere mediante un piano opportunatamente denunciato a chi di competenza per la protezione.
Solo dopo si può procedere alla messa a dimora delle piante e del sesto d’impianto. Oggi le forme d’impianto più usate sono quelle quadre a partire da (5x5)m e vengono detti intensivi. Però stanno prendendo campo i sesti d’impianto superintensivi a partire da (160x80)cm, ma richiedono attenzioni particolari cui non siamo ancora particolarmente avvezzi dato che siamo abituati a vedere e riconoscere la pianta come tale e non come filare. La forma di allevamento a scacchiera, perimetrale e mista è andata completamente in disuso.
Successivamente si procede con vari trattamenti per migliorare e facilitare l’attecchimento, quali annaffiatura, ramatura, zolfatura, concimazione fogliare.
Poi eventualmente si completa il sesto d’impianto, nel qualcaso alcune piante avessero fallito e si inizia a modellare la pianta secondo la forma d’allevamento scelta.